la capsulite adesiva

La capsulite adesiva

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La capsulite adesiva (storia)

La capsulite adesiva definita anche con il termine “Frozen Shoulder” che venne introdotto per la prima volta nel 1934 da Codman, descriveva una condizione con determinate caratteristiche: esordio insidioso, dolore solitamente presente vicino alla zona di inserzione del Deltoide, incapacità di dormire sul lato affetto, movimenti di spalla (soprattutto elevazione e rotazione esterna omerali) incompleti e dolorosi, atrofia di Sovraspinato e Sottospinato, esami radiografici negativi tranne per la presenza di atrofia ossea.

Prima di Codman, nel 1872, la stessa condizione era stata etichettata da Duplay come “periartrite scapolo-omerale”, un termine (ancor oggi utilizzato) che però comprendeva un gruppo non specifico di diverse patologie. Nel 1945 Neviesar portò l’attenzione sulla capsula articolare come fonte dei problemi, diversamente dai suoi predecessori che vedevano nella borsa subacromion-deltoidea la causa principale di tale condizione.

Da qui propose il termine “Capsulite Adesiva”, per descrivere il cambiamento della sinovia a livello della capsula infiammata. Nonostante questo termine sia ancora in uso nell’ICD (International Classification of Disease) e negli USA, studi artroscopici successivi sostennero che questa condizione non era associata ad aderenze capsulari, bensì a sinovite e progressiva contrattura della capsula stessa.

Come recensito da Bunker nel 2009, una delle caratteristiche principali rilevate in una spalla con Frozen Shoulder è proprio la contrattura capsulare, il cui volume può restringersi fino a 3-4 ml. A prescindere dal meccanismo tramite cui si manifesta, questa particolarità risultava così evidente che Bunker nello stesso anno suggerì un ulteriore aggiornamento del nome in “Contracted (frozen) Shoulder”, termine attualmente in uso in alcuni studi.

Gli studi tratti dalla letteratura scientifica utilizzano come sinonimi i termini “Frozen Shoulder” e “Capsulite Adesiva”: indicano entrambi la medesima condizione.
Al contrario, molti altri aspetti che definiscono questa condizione (ad esempio classificazione, decorso clinico, criteri diagnostici) differiscono a seconda dei diversi modelli a cui possono fare riferimento

La capsulite adesiva – Definizione 

L’ American Shoulder and Elbow Society (ASES) ha definito la capsulite adesiva (Frozen Shoulder) “Una condizione caratterizzata da una restrizione funzionale dolorosa della mobilità sia attiva che passiva della spalla per la quale non vi sono riscontri radiografici significativi, tranne per la possibile presenza di osteopenia o tendinite calcifica”.

Dal punto di vista tissutale la capsula risulta contratta a livello dell’ articolazione gleno-omerale ed adesa alla testa omerale; questo causa un progressivo aumento del dolore ed un’importante perdita di articolarità sia attiva che passiva della spalla.

Conseguentemente, la persona lamenta una diminuzione della qualità di vita, in quanto risultano difficili o impossibili da compiere diverse attività legate al lavoro, al tempo libero ed in generale alla quotidianità.

Viene definita come una condizione autolimitante della durata di 2-3 anni, anche se alcuni studi hanno riportato che il 40% dei pazienti presentano sintomi oltre i 3 anni dal loro inizio (in media fino a 4.4 anni, in un range di 2-20 anni), mentre il 15% rimane con deficit permanenti. Queste differenze possono tuttavia essere dovute all’utilizzo di diversi criteri diagnostici e parametri delle misure di outcome.

Un coinvolgimento simultaneo bilaterale avviene nel 14% dei casi, mentre il 20% dei pazienti può sviluppare sintomi simili nella spalla controlaterale.

Classificazione 

In letteratura sono presenti diverse tipologie di classificazione per la Frozen Shoulder. Lundberg nel 1969 fu il primo a suddividere la Capsulite Adesiva in due categorie: primaria (idiopatica, con cause sconosciute) e secondaria, causata da traumi.


Altri autori hanno poi ampliato la forma secondaria di Lundberg, includendo in essa ogni associazione con altri eventi o patologie, che comprendono: traumi, interventi di neurochirurgia o cardiochirurgia, diabete, malattia di Dupuytren, patologie tiroidee, Parkinson, osteoporosi, ictus, malattie cardiorespiratorie, alti livelli di colesterolo, deficit dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH), tendinopatie del bicipite o della cuffia dei rotatori, borsiti subacromiali.


La classificazione utilizzata da Kelley propone anch’essa due macrocategorie: Frozen Shoulder primaria (Capsulite Adesiva idiopatica) e Frozen Shoulder secondaria. La prima è caratterizzata da un’origine idiopatica; la seconda viene suddivisa in:

  • Sistemica: include pazienti con una storia di diabete mellito o malattie tiroidee;
  • Estrinseca: include pazienti la cui patologia non è direttamente correlata alla spalla, come ictus, patologie intratoraciche o intraddominali, disturbi cervicali, autoimmobilizzazioni, fratture alle estremità distali.
  • Intrinseca: include pazienti con una patologia conclamata precedente o recente alla spalla, come tendinopatie del bicipite o della cuffia dei rotatori, tendinite calcifica, artropatia acromionclaveare o glenomerale, fratture prossimali di omero e/o scapola.


Perdita di ROM articolare e dolore associati a rigidità post-operatoria non sono considerate Capsulite Adesiva. Diversamente da prima, altre classificazioni includono nella Capsulite Adesiva primaria anche le associazioni con sbilanci ormonali, biochimici e immunologici; nella forma secondaria invece sono inserite tutte le cause note di rigidità ed immobilità di spalla, come interventi o traumi precedenti.

Data quindi l’esistenza di diverse tipologie di classificazione in uso per la Frozen Shoulder, diventa essenziale sapere con esattezza a quale di esse ci si riferisce, in modo da evitare incomprensioni nello studio di tale patologia, che potrebbero inficiare la corretta presa in carico del paziente per diagnosi, valutazione e strategie di intervento. Nello specifico, questo studio utilizza la classificazione proposta da Kelley.

Epidemiologia e fattori di rischio

La prevalenza della capsulite adesiva si stima essere tra il 2 e il 5% della popolazione generale. Colpisce leggermente di più le donne rispetto agli uomini ed ha una maggiore incidenza tra i 40 ed i 65 anni di età, con un picco a 56 anni. Contrarre la Capsulite Adesiva in una spalla aumenta il rischio di un interessamento controlaterale dal 5 al 34%.

Nonostante l’eziologia di tale patologia sia tutt’ora oggetto di discussione, diversi fattori di rischio sono associati a questa condizione. Questi includono: diabete, malattie sistemiche (ipertiroidismo, ipotiroidismo, malattie cardiovascolari), Parkinson, malattia di Dupuytren, età compresa tra i 40 e 65 anni, immobilità prolungata di spalla (trauma, patologie da sovraccarico o chirurgia).

Zreik et al nella loro recente pubblicazione hanno effettuato il primo studio di meta-analisi che stima la prevalenza del Diabete Mellito in una popolazione con Capsulite Adesiva. Si afferma che la prevalenza di Capsulite Adesiva nel diabete mellito è del 13,4%; viceversa, la prevalenza di diabete mellito in una popolazione con Capsulite Adesiva è del 30%. In aggiunta, i pazienti diabetici sono 5 volte più soggetti a sviluppare una Capsulite Adesiva rispetto ai non diabetici.

Non sono state trovate differenze tra diabete mellito di tipo 1 e diabete mellito di tipo 2 o tra terapia insulinica e terapia tramite ipoglicemici orali; tuttavia si è visto che il diabete mellito come fattore di rischio colpisce maggiormente gli uomini rispetto alle donne. La Frozen Shoulder in pazienti diabetici è spesso più severa e resistente ai trattamenti.

Schiefer M, in uno studio su 244 partecipanti, stimano che la prevalenza dell’ipotiroidismo nei pazienti con Frozen Shoulder sia significativamente più alta (27,2%) rispetto al gruppo controllo (10,7%), con una maggior prevalenza di Frozen Shoulder bilaterale nel caso in cui ci siano alti livelli di TSH nel sangue. Le disfunzioni tiroidee in questo caso colpiscono di più le donne rispetto agli uomini.

Ci sono inoltre fattori psico-sociali che influenzano sia il recupero che la presa in carico generale del paziente con Frozen Shoulder. In particolare, ansia e depressione sono state riconosciute come componenti importanti della Frozen Shoulder primaria.

Processo fisiopatologico:

Sinovia
Le evidenze dimostrano che la capsulite adesiva (primaria e secondaria) è caratterizzata da un’infiammazione della sinovia con conseguente fibrosi capsulare [15]; clinicamente infatti si è visto che spesso il dolore precede la rigidità, per cui è possibile ipotizzare che dal processo infiammatorio si arrivi poi alla fibrosi.
Vi sono quindi sinovite multiregionale (coerente con l’infiammazione), vascolarizzazione focale, angiogenesi e neurogenesi a livello degli strati subsinoviali, soprattutto negli stadi iniziali della patologia.

Complesso capsulo-legamentoso
Il volume medio intra-articolare, a causa del processo fibrotico e quindi della contrattura della capsula articolare, può ridursi fino a 5-6 ml (contro i normali 15-30 ml). Questo favorisce la spinta della testa omerale contro la fossa glenoidea, portando ad una sostanziale riduzione del movimento fisiologico.

Da studi artroscopici è stata inoltre evidenziata la presenza di importante sinovite entro l’intervallo dei rotatori, con ispessimento e contrattura della capsula anteriore, in particolare dei legamenti coraco-omerale, gleno-omerale medio e del recesso ascellare; anche questo fa si che si riduca la spazio dell’articolazione gleno-omerale limitando i movimenti della spalla, soprattutto rotazioni, abduzione ed elevazione.

In particolare, un recente lavoro condotto da Chueh-Hung Wu [20] si concentra sullo studio del legamento coraco-omerale (CHL): viene ipotizzato che in un paziente con una diagnosi clinica di Frozen Shoulder tale legamento, oltre ad essere più spesso, sia anche più rigido rispetto al controlaterale.

Questa ipotesi è stata verificata e confermata tramite l’utilizzo dell’elastografia Shear-Wave (SWE), una tecnica di imaging basata su ultrasuoni che permette di misurare, in kilopascal, l’elasticità dei tessuti di una particolare zona di interesse.

Questo ispessimento e questa scarsa elasticità del legamento coraco-omerale potrebbero essere tra le maggiori responsabili della perdita di rotazione esterna dell’articolazione gleno-omerale, tra le caratteristiche principali dei pazienti affetti da Frozen Shoulder.

Tuttavia, lo studio presenta dei limiti: la valutazione è stata effettuata solo per un tratto del CHL (vicino al processo coracoideo), in un campione basso di soggetti (54), solo per pazienti con Capsulite Adesiva primaria in fase 2/3. I risultati di tale studio non possono quindi essere generalizzati, ma offrono comunque un’interessante visione sul ruolo di questo legamento in tale condizione.

Patogenesi

L’eziopatogenesi della Frozen Shoulder rimane ancora poco conosciuta. Alcuni studi hanno dimostrato la presenza di alti livelli di citochine, che agiscono come stimolo infiammatorio e fibrogenico persistente, con conseguente sviluppo di fibrosi ed infiammazione a sinovia e complesso capsulo-legamentoso.


Analisi istologiche hanno rilevato che nei pazienti affetti da Frozen Shoulder sono presenti una maggior concentrazione di diversi elementi: citochine infiammatorie come TNF-alpha (fattore di necrosi tumorale), interleuchine IL-1 alpha, IL-1 beta, IL-6, fattori di crescita fibrotici come TGF-beta, fattori di crescita piastrinici PDGF, fattori di crescita fibroblasti aFGF e bFGF, collagene di tipo III, metalloproteinasi della matrice MMP-1, MMP-3, MMP13.

Nella Capsulite Adesiva primaria sono stati individuati nella capsula e nella sinovia dell’intervallo dei rotatori anche linfociti di tipo B e T, mastociti e macrofagi; questo suggerirebbe una risposta immunitaria che sfocia nel processo infiammatorio e fibrotico.

Le citochine, assieme ai fattori di crescita e alle metallo-proteine, facilitano la riparazione ed il rimodellamento del tessuto all’interno del processo infiammatorio. Tuttavia, anche se il fattore scatenante iniziale è ancora sconosciuto, la patogenesi origina da una sovra-regolazione delle citochine infiammatorie.

Questo, tramite l’evoluzione di vari processi, porta alla proliferazione di fibroblasti attivi (stimolati dai fattori di crescita e dalle metallo-proteine) e alla loro successiva trasformazione in miofibroblasti, che vanno ad intaccare i tessuti molli articolari, accompagnati dall’infiammazione della sinovia; tutto questo avverrebbe soprattutto nella capsula anteriore.

Il percorso descritto è simile a quello riscontrato nella sindrome di Dupuytren ed altri tipi di fibromatosi, soprattutto nella relazione agli inibitori delle metallo-proteine della matrice. Il fattore scatenante il processo infiammatorio simil-Dupuytren rimane tutt’ora sconosciuto, come anche gli eventi immunologici che dovrebbero precedere l’infiammazione nella Frozen Shoulder primaria.


Un’ultima ipotesi attribuisce il fattore scatenante l’infiammazione alla lesione della cuffia dei rotatori, in cui la rottura delle fibre tendinee innescherebbe i markers infiammatori e fibrotizzanti; anche in questo caso non vi sono sufficienti evidenze scientifiche.

Decorso clinico

La Capsulite Adesiva è caratterizzata da un lungo decorso clinico che ha una durata media di 30,1 mesi (in un range da 12 a 42 mesi); possono inoltre residuare disturbi e deficit a distanza di anni, a volte anche permanenti. Diversi autori sostengono che la Frozen Shoulder si sviluppi in tre fasi:

  • 1. Freezing stage (di congelamento): vi è una progressiva perdita di mobilità su tutti i piani ed aumento del dolore, presente già a mid-range e durante la notte. Dura dai 2 ai 9 mesi, in cui è presente un’ aggressiva sinovite ed angiogenesi.
  • 2. Frozen stage (fase congelata/di rigidità): vi è un ulteriore aumento della rigidità, mentre il dolore rimane costante o inizia a regredire, presentandosi solo all’end of range. Può durare dai 4 ai 12 mesi, in cui si verifica una progressiva fibrosi capsulo- legamentosa, mentre diminuiscono sinovite ed angiogenesi.
  • 3. Thawing stage (di scongelamento/risoluzione): vi è solitamente la risoluzione del dolore e un graduale recupero della mobilità di spalla, anche se può non esserci sempre un recupero completo. Può durare dai 15 ai 24 mesi dall’inizio dei sintomi.


Altri autori invece affermano che il decorso clinico della Frozen Shoulder sia delineato da 4 fasi: alle 3 già descritte fanno precedere una fase “pre-adesiva”, in cui i pazienti descrivono un dolore acuto all’end of range e fastidio durante la notte e a riposo. In questa fase, che può durare fino a 3 mesi, gli esami artroscopici rivelano una diffusa reazione sinoviale senza adesioni o contratture. Una precoce perdita di rotazione esterna con una cuffia dei rotatori integra è un segno di possibile Capsulite Adesiva.


Hanchard et al raccomandano invece l’utilizzo di una classificazione semplificata, che divide il decorso clinico della Frozen Shoulder in una iniziale fase “dolore predominante” e una successiva fase “rigidità predominante”.

Per gli stessi motivi descritti nel paragrafo dedicato alla classificazione, anche in questo caso diventa indispensabile sapere a che tipo di decorso clinico si fa riferimento; in particolare, questo studio si rifà alle 4 fasi descritte da Kelley et al.


Tuttavia, è importante specificare che la presentazione clinica del paziente non risulta sempre riferibile ad una fase precisa, in quanto le fasi sopra descritte si manifestano spesso in modo sovrapposto e non chiaro.


Ecco quindi che la classificazione basata sul livello di irritabilità dei tessuti proposta da Kelley et al può essere più utile per effettuare le giuste decisioni cliniche riguardo valutazione e strategie di intervento terapeutico (frequenza, intensità, durata, tipologia di trattamento) per la Capsulite Adesiva. Il termine irritabilità descrive l’abilità del tessuto a sopportare lo stress fisico ed è in relazione con lo stato infiammatorio presente. Sono stati stabiliti tre livelli, sintetizzati nella tabella qui di seguito:

la capsulite adesiva

Anche se questa suddivisione non è basata su criteri temporali, gli autori affermano che i pazienti nelle prime fasi del decorso clinico presentano alti livelli di irritabilità, al contrario delle ultime fasi in cui l’irritabilità è bassa.

Diagnosi e valutazione funzionale

La diagnosi di Frozen Shoulder è essenzialmente clinica, data dalla storia e dalla valutazione clinica del paziente. Tuttavia, considerando la complessità della patologia in termini di variabilità nella presentazione di segni e sintomi e l’assenza di un accordo comune sulla descrizione di tale patologia, non esistono ancora precisi criteri diagnostici definitivi ritenuti “Gold Standard”.

Diventa pertanto essenziale condurre un’efficace valutazione funzionale del paziente, attraverso una corretta raccolta anamnestica ed un accurato esame fisico, in modo da ottenere un’esatta diagnosi ed un preciso inquadramento di tale condizione.

Ulteriori elementi da considerare a tal fine possono essere determinati esami strumentali e test specifici. Sebbene quindi non vi sia una processo diagnostico e riabilitativo ritenuto “Gold Standar”, diverse componenti possono essere utilizzate per questo scopo, oltre a permettere di effettuare diagnosi differenziale e di discriminare il tipo di Capsulite (primaria o secondaria ed individuare la fase patologica/di irritabilità in cui si trova il paziente.

Anamnesi:

A livello anamnestico, il paziente riporta una graduale e progressiva insorgenza del dolore, presente inizialmente a fine corsa e riferito solitamente alla zona inserzionale del deltoide. Inoltre, il dolore impedisce di dormire sul lato affetto e limita, insieme alla graduale e progressiva comparsa di rigidità, le attività di vita quotidiana, soprattutto quelle che comportano movimenti funzionali come il reaching overhead, il behind the back e l’out to the side. Tali sintomi devono essere presenti da almeno un mese [1] [8] [11].
Altri elementi che possono derivare dall’intervista al paziente si rifanno ai fattori di rischio precedentemente descritti: età tra i 40 ed i 65 anni, presenza di patologie sistemiche come diabete e disfunzioni tiroidee (questo indirizzerebbe verso una Frozen Shoulder secondaria sistemica), disturbi intrinseci oppure estrinseci alla spalla (Frozen Shoulder secondaria intrinseca o estrinseca). L’andamento e lo sviluppo di dolore e restrizione del movimento risulta generalmente in linea con l’evoluzione del decorso clinico fatta in precedenza. I dati anamnestici dipendono quindi dalla fase patologica in cui si trova il paziente; ciò nonostante è necessario sottolineare ancora come tali fasi risultino spesso difficilmente delineabili, in quanto i sintomi (in particolare dolore e restrizione articolare) tendono a presentarsi clinicamente in maniera sovrapposta

Esame fisico:

Tutti gli studi concordano nell’affermare che la Capsulite Adesiva si manifesta con una globale restrizione del movimento del cingolo scapolare e con una importante perdita di mobilità sia attiva che passiva. Inoltre, una sostanziale perdita di rotazione esterna, sia attiva che passiva, è riconosciuta da molti autori come forte indicatore per la diagnosi di Frozen Shoulder; questo a causa delle alterazioni strutturali presenti nei tessuti colpiti dal processo fisio-patologico: capsula articolare anteriore, legamento coraco-omerale, legamento gleno-omerali, recesso ascellare, intervallo dei rotatori.
Non esistono criteri diagnostici standard che definiscano l’esatto grado di restrizione articolare che dev’esserci nel caso di Capsulite Adesiva; i valori indicativi di riferimento variano da autore ad autore e a seconda della tensione delle strutture interessate dal processo infiammatorio e fibrotico.
Secondo le linee guida dell’American Physical Therapy Association, con una perdita di ROM > 25% in almeno due piani di movimento associata a perdita di rotazione esterna passiva del 50% o <30° sarebbe diagnosticabile una Frozen Shoulder.
Secondo altri autori, AROM e PROM dovrebbero essere: rotazione esterna < 50° ed elevazione < 100°, con rigidità presente da almeno 4 settimane.
Il pattern capsulare riscontrato da Cyriax nel 1970 descriveva una perdita di rotazione esterna rispettivamente maggiore della perdita di abduzione, a sua volta più limitata della rotazione interna. All’interno quindi della globale perdita di mobilità attiva e passiva, i movimenti più limitati, oltre alla rotazione esterna, sono rotazione interna, abduzione ed elevazione omerali; il paziente solitamente tende a compiere questi movimenti compensando attraverso schiena e scapolo-toracica (elevazione del moncone della spalla, rotazioni e compensi del tronco). Alla palpazione è possibile notare una diffusa rigidità a livello dell’articolazione gleno-omerale, oltre ad atrofia di deltoide e muscoli scapolari. A fronte della presenza di questa atrofia muscolare, in letteratura non si riscontrano molti studi che utilizzino test di forza come elementi diagnostici e/o valutativi di Frozen Shoulder. Sempre Cyriax infatti affermava che i pazienti con Capsulite Adesiva avevano una forza normale in assenza di dolore ai test di resistenza. Nelle guide linea di Kelley et al si fa riferimento ad una possibile debolezza al test isometrico dei muscoli rotatori interni, rotatori esterni ed elevatori; i risultati tuttavia potrebbero non tenere in considerazione l’azione inibente del dolore sulla forza muscolare, che andrebbe a falsare la valutazione stessa. Considerando inoltre la bassa qualità delle evidenze a supporto di questi risultati, si può affermare che l’utilizzo di test di forza a fini diagnostici e valutativi di Frozen Shoulder non sembra raccomandabile.

Test speciali:


Nella Frozen Shoulder, test speciali come tutti gli impingement tests non sono utili per la diagnosi o per la differenziazione rispetto ad altre condizioni (come le patologie di cuffia), in quanto producono dolore già a causa del loro posizionamento (previsto all’end of ROM) e per via della rigidità capsulo legamentosa.


Nonostante questo, molti Autori hanno studiato diversi test speciali analizzando poi la loro sensibilità e specificità per la diagnosi e valutazione della Capsulite Adesiva.


Un test clinico sensibile per la Frozen Shoulder risulta essere il Shoulder Shrug Sign: questo test valuta la capacità del paziente di portare l’articolazione gleno-omerale a 90° di abduzione sul piano frontale senza che vi sia il compenso di elevazione del moncone della spalla.

Questo test risulta avere un’ indice di sensibilità del 95% ed un’ indice di specificità del 50%: può quindi essere un test utile all’interno del processo valutativo del paziente con Frozen Shoulder, ma non specifico diagnostico.


In un altro studio, condotto da S. Carbone et al, viene proposto un possibile test palpatorio provocativo patognomonico di Frozen Shoulder: il Coracoid Pain Test. Esso consiste nell’eseguire una pressione digitale a livello del processo coracoideo: se il dolore provocato da tale pressione risulta di almeno 3 punti maggiore (utilizzando la scala VAS) rispetto al dolore provocato dalla palpazione dell’articolazione acromion-claveare e della zona antero-laterale subacromiale, il test è considerato positivo.

La pressione esercitata va infatti a comprimere esattamente l’ intervallo della cuffia dei rotatori, ossia una delle aree più interessate in conseguenza del processo patogenico che caratterizza la Capsulite Adesiva. Rispetto alle altre patologie di spalla prese in esame, il test è risultato avere un indice di sensibilità di 0,96 ed un indice di specificità tra 0,87 e 0,89; rispetto invece al gruppo controllo (popolazione sana) gli indici sono rispettivamente pari a 0,99 e 0,98.

Secondo lo studio, il Coracoid Pain Test può essere quindi considerato un test clinico cardinale all’interno dell’esame fisico per identificare le persone che soffrono o meno di Frozen Shoulder. Lo studio ha il limite di analizzare un solo gruppo (non cieco) di pazienti con Capsulite Adesiva; inoltre, non viene segnalato nessun indice di attendibilità ed esclude le persone obese, a causa della difficoltà di raggiungere con la palpazione il processo coracoideo.


Un altro test clinico proposto per la diagnosi di Frozen Shoulder già nelle prime fasi è il Distension Test in Passive External Rotation (DTPER), descritto in un recente studio di E. Noboa et al. Il paziente è in stazione eretta, con il braccio affetto addotto ed il gomito flesso a 90° in posizione neutra di prono-supinazione.

L’esaminatore, mentre mantiene l’adduzione con una mano sul gomito del paziente, con l’altra porta lentamente l’arto superiore in rotazione esterna afferrando il polso, fino al massimo grado raggiungibile senza dolore. Da questa posizione, l’esaminatore cerca di aumentare la rotazione esterna tramite un movimento improvviso: il test è positivo se viene evocato dolore al paziente, che reagisce resistendo volontariamente alla continuazione della rotazione, a prescindere dai gradi di movimento precedentemente raggiunti.


I 43 pazienti dello studio con diagnosi di Capsulite Adesiva idiopatica sono stati valutati in anestesia generale, prima di affrontare l’intervento di manipolazione sotto anestesia, dopo l’insuccesso della terapia conservativa. Il DTPER ha mostrato un indice di sensibilità del 100% ed un indice di specificità del 90%, con una percentuale pari a 9,8% di falsi negativi: lo studio dimostra la validità interna di questo test.

Sono comunque presenti dei limiti, come ad esempio l’assenza di un gruppo controllo in cui si possa confrontare il DTPER con altri test clinici per la diagnosi di Frozen Shoulder.
Un ultimo interessante test clinico trovato in letteratura per la valutazione del paziente con Frozen Shoulder è il Test di lunghezza del legamento coraco-omerale, che risulta diminuita rispetto al controlaterale.

Il paziente è in piedi con l’arto sano contro il muro per minimizzare i compensi: l’obiettivo è quello di quantificare il movimento combinato di estensione ed adduzione omerali con il braccio che rimane esteso, ruotato esternamente e con l’avambraccio in supinazione. L’esaminatore, posizionato dietro al paziente, guida l’iperestensione di spalla fino ai 10° ed infine utilizza un goniometro per misurare il grado di adduzione che il paziente riesce a raggiungere fino al limite imposto dal dolore o dalla rigidità (end-feel fermo).

Il fulcro del goniometro è allineato posteriormente con il processo acromiale; il braccio fisso è perpendicolare al processo spinoso di T3, a sua volta allineato con la spina della scapola; il braccio mobile è allineato con l’asse postero-laterale dell’omero. L’esaminatore con una mano stabilizza il braccio fisso del goniometro e con l’altra muove il braccio mobile, guidando il paziente nel movimento.

Lo studio di J.O. Ruiz presenta tuttavia molti limiti ed un scarso livello di evidenza, trattandosi di un case report in cui non viene analizzata la validità scientifica della proposta ed in cui non vengono riportati gli indici di sensibilità e specificità.

Nonostante questo, il razionale del test è stato ritenuto molto valido in quanto questo movimento combinato si basa anatomicamente sulla messa in tensione del legamento coraco-omerale e dell’intervallo dei rotatori, tra i principali responsabili della restrizione del movimento nella Frozen Shoulder. La posizione assunta dal paziente in sede di valutazione può inoltre essere adoperata come esercizio di stretching per il legamento coraco-omerale.

Distension Test in Passive External Rotation (DTPER)

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Shoulder Shrug Sign e altri test

Esami strumentali:

Nonostante la diagnosi di Capsulite Adesiva sia essenzialmente basata su una valutazione clinica, varie modalità di imaging possono aiutare a confermare tale esito in sede di diagnosi differenziale, o ad individuare la presenza di condizioni associate.
La Radiografia mostra un grado di normalità, tranne per la possibile presenza di osteopenia o tendinite calcifica.

Può inoltre rilevare possibili caratteristiche associate come osteofiti, corpi liberi o calcificazioni periarticolari.
L’Artrografia convenzionale permette di individuare il volume capsulare: nonostante una sua riduzione sia un rilevamento comune, non esistono dati certi che quantifichino con esattezza l’entità di tale riduzione; secondo uno studio di Harryman et al dovrebbe essere inferiore ai 10-12 ml, arrivando fino anche a 3-5 ml.

L’Ultrasuonografia evidenzia cambiamenti infiammatori fibrovascolari dei tessuti molli nel 100% dei pazienti, associati all’ispessimento del legamento coraco-omerale.
La Densità ossea minerale diminuisce nella frozen shoulder primaria, ma torna alla normalità una volta che il paziente guarisce.

Gli Esami di laboratorio non contribuiscono alla diagnosi di frozen shoulder; tuttavia, data l’alta correlazione di diabete e disfunzioni tiroidee con la capsulite adesiva, possono essere utili per verificare la presenza di comorbilità.

La Risonanza Magnetica (MRI) e l’Artrografia con Risonanza Magnetica (MRA) possiedono un’alta accuratezza diagnostica nell’identificazione di diverse caratteristiche che appartengono alla frozen shoulder, come l’ispessimento del legamento coraco-omerale, la poca distensione capsulare, l’iperintensità del legamento gleno-omerale inferiore, l’ipertrofia sinoviale, l’ispessimento a livello del recesso ascellare e dell’intervallo dei rotatori.

Trattamento

Dall’analisi della più recente letteratura scientifica non è emersa l’esistenza di un protocollo riabilitativo standardizzato che possieda maggiori prove di efficacia rispetto ad altri; la scarsa qualità degli studi sperimentali effettuati non permette infatti di avere conclusioni definitive in merito alle procedure di trattamento ritenute migliori per i soggetti affetti da Frozen Shoulder. Nonostante questo, sono presenti molti strumenti terapeutici disponibili per medici e fisioterapisti che, se scelti accuratamente dopo un buon inquadramento del paziente, possono aiutarlo efficacemente nella risoluzione dei problemi che comporta questa condizione.

Gli obiettivi da raggiungere attraverso il trattamento puntano alla:

  • risoluzione della sintomatologia dolorosa,
  • all’aumento dell’articolarità (attiva e passiva),
  • al miglioramento delle attività funzionali ed al benessere bio-psico-sociale del paziente.

Il trattamento della Capsulite Adesiva è inizialmente conservativo; può però rendersi necessario anche un intervento più invasivo, tramite tecniche chirurgiche.

Trattamento chirurgico

Il trattamento chirurgico viene preso in considerazione solo nei casi in cui i sintomi non rispondano al trattamento conservativo, soprattutto per quanto riguarda i parametri dolore e mobilità articolare. Non esiste un arco temporale preciso e definito che fa da cut-off oltre cui viene decretato il fallimento del trattamento conservativo in favore di un intervento chirurgico: alcuni studi indicano un tempo di 2/3 mesi; altri circa 6 mesi o da un minimo di 6 ad un massimo di 12 mesi; altri ancora affermano che in media i pazienti si sottopongono alla chirurgia dopo 12,4 mesi di riabilitazione.

In più, pazienti che oltre ad avere sintomi persistenti possiedono anche fattori di rischio come il diabete o che sono affetti bilateralmente, possono prendere in considerazione l’intervento prima rispetto agli altri soggetti.

Le principali tecniche chirurgiche adottate per la Frozen Shoulder sono:

– Manipolazione sotto anestesia (Blocco in narcosi): al paziente, sotto anestesia generale, viene eseguita una sequenza specifica di manipolazioni oltre resistenza che comprendono flessione, abduzione, rotazione esterna ed interna di spalla ad omero abdotto.

Alcuni autori considerano la manipolazione sotto anestesia (MUA) un intervento efficace per aumentare il ROM di spalla, mentre altri affermano che sia una tecnica traumatica che possa al contrario esacerbare il dolore. Diversi rischi di danni iatrogeni sono associati a questo intervento, come fratture omerali prossimali, lussazione della gleno-omerale, rottura della cuffia dei rotatori, danni al labbro glenoideo, lesioni del plesso brachiale.

A causa di questi rischi, la MUA non viene eseguita in pazienti anziani, osteoporotici o con storie di lussazioni recidivanti dell’articolazione gleno-omerale. La MUA è tutt’ora una procedura molto utilizzata; si ipotizza che il momento migliore per svolgere l’intervento ed ottenere maggiori risultati (sempre in caso di fallimento della terapia conservativa) sia tra i 6 e i 9 mesi dall’inizio dei sintomi.


– Release capsulare a cielo aperto: è considerata una buona tecnica chirurgica; tuttavia, risulta ormai un intervento superato, sostituito dal release artroscopico.
Con esso infatti vengono scongiurati i rischi tipici di una tecnica cruenta, come le lesioni ai tessuti molli, una cicatrice importante ed il grande dolore post-intervento, che potrebbero esitare in un recupero più lento.


– Release capsulare artroscopico: l’utilizzo di questa tecnica è molto comune ed attualmente è considerata dalla comunità scientifica la più efficace nel trattamento della Frozen Shoulder, nonostante si incoraggino nuovi approfondimenti per capire meglio i benefici associati a tale metodica nel breve e nel lungo periodo. L’intervento consiste in una incisione delle strutture colpite dal processo fisiopatologico tramite un release del legamento coraco-omerale ed una capsulotomia mirata al fine di liberare le aderenze e restituire all’articolazione un range di movimento quanto più possibile vicino al fisiologico.

I risultati relativi al recupero articolare sono simili a quelli ottenuti tramite MUA, ma il release artroscopico presenta una differenza significativa nel sollievo dal dolore pre-operatorio. Gli studi presi in esame dalla review di H.S. Uppal et al  dimostrano tutti una rapida e statisticamente significativa crescita nelle attività funzionali di spalla dopo questo tipo di intervento.

La tecnica presenta un basso rischio (soprattutto rispetto alle altre metodiche chirurgiche) di lesioni iatrogene o possibili complicanze; raramente possono verificarsi: lesione del nervo ascellare, lussazione, condrolisi ed instabilità di spalla. Rispetto alla MUA, il release atroscopico ha il vantaggio di essere una tecnica più sicura e precisa, causando minori traumi ed emorragie dei tessuti molli.

Il momento più appropriato per effettuare tale intervento è anche qui oggetto di dibattito; tipicamente viene indicato dopo 6-12 mesi dall’inizio dei sintomi, una volta sancito il fallimento del trattamento conservativo. La riabilitazione fisioterapica post-intervento può iniziare subito dopo l’operazione

Trattamento medico conservativo


In letteratura sono presenti molte opzioni terapeutiche che il medico può considerare e decidere di adottare per la cura del paziente con Capsulite Adesiva, a seconda della valutazione fatta sulla base di tutte le caratteristiche cliniche che può manifestare tale condizione. Tuttavia, non esistono delle conclusioni definitive su quale sia il protocollo di trattamento più efficace per la cura e per la gestione della Frozen Shoulder; i motivi risiedono nella complessità di tale condizione e nelle insufficienti evidenze scientifiche presenti in letteratura.

Il trattamento conservativo viene sempre indicato come primo approccio di cura per tutti i pazienti con diagnosi di Frozen Shoulder; a tal proposito, l’intervento medico può avvalersi delle seguenti opzioni terapeutiche:

– Corticosteroidi: la loro assunzione può avvenire per via orale oppure attraverso infiltrazioni. Le iniezioni a sua volta possono essere intra-articolari (articolazione gleno-omerale) o sub-acromiali, ad alte o a basse dosi.
In generale, le iniezioni di corticosteroidi hanno i benefici più veloci su funzionalità, sintomatologia dolorosa e recupero articolare nel breve periodo e nelle prime fasi di Frozen Shoulder, quando dolore e infiammazione sono più rappresentati.


La review Cochrane di Blanchard et al conferma questi benefici, ma afferma che le evidenze di efficacia presenti in letteratura sono basse e non definitive; è inoltre necessaria un’attenta analisi dei rischi-benefici per ogni paziente, a causa dei possibili effetti collaterali che possono avere le iniezioni: atrofia, cambiamento del colore della pelle, debolezza di legamenti e tendini, dovuta alla fuoriuscita di steroidi nei tessuti circostanti.

Alcuni autori infatti indicano che per evitare rischi di condrolisi non si devono superare tre iniezioni di corticosteroidi. Gli effetti benefici delle iniezioni sono a breve termine: alcuni studi affermano che durino al massimo 6 settimane, altri 7/8 settimane, altri ancora 4/6 settimane.


Un recente studio di M. Ranalletta et al afferma, attraverso un trial clinico randomizzato su pazienti in fase freezing, che una singola iniezione intra-articolare di corticosteroidi prima del trattamento fisioterapico dà dei benefici molto maggiori rispetto alla terapia con farmaci orali non steroidei fino a 8 settimane di follow-up, consentendo un più rapido ed agevole recupero di mobilità, funzionalità e riduzione del dolore.


Anche i corticosteroidi assunti per via orale sembrano avere benefici a breve termine (circa 6 settimane) per la riduzione di dolore ed infiammazione nelle prime fasi della Frozen Shoulder. Anche qui, come nel caso delle iniezioni, si raccomanda una analisi del rapporto rischi-benefici; non vi sono invece prove di efficacia per il lungo periodo.


– Iniezioni intra-articolari di acido ialuronico: l’acido ialuronico (HA), componente importante del liquido sinoviale, ha un ruolo cruciale nella lubrificazione e nella protezione dei condrociti delle articolazioni. Tramite le iniezioni intra-articolari di HA viene diminuita l’infiammazione sinoviale agendo a livello delle citochine; si ottiene così una riduzione del dolore ed un miglioramento nelle attività funzionali.


Tuttavia, il ruolo delle iniezioni di HA nella gestione della Capsulite Adesiva non è ancora approvato, a causa delle controverse evidenze presenti in letteratura.
In una review di L.C. Lee et al (2015) [40], a partire da un’analisi di 34 triali clinici si afferma che le iniezioni intra-articolari di HA non sono superiori in termini di outcome rispetto ai trattamenti convenzionali; anche la loro associazione alle terapie convenzionali non porta a significativi benefici aggiuntivi.


– Anti-infiammatori non steroidei (FANS): se tollerati, i farmaci FANS sono frequentemente utilizzati con lo scopo di ridurre il grado di infiammazione e dolore, soprattutto nelle prime fasi della patologia, in cui è prevalente lo stato infiammatorio. Solitamente rappresentano il primo step per il controllo del dolore e possono essere prescritti in qualsiasi fase della patologia. Nonostante la loro diffusione, non vi è evidenza in letteratura a sostegno dell’efficacia per il trattamento della Capsulite Adesiva, in particolar modo per i benefici nel lungo periodo.


– Agopuntura e Dry Needling: come afferma la review di Wilson et al, in letteratura scientifica non esistono evidenze conclusive sull’efficacia dell’agopuntura nella cura della Capsulite Adesiva. Lo stesso discorso può valere anche per la più recente tecnica del Dry Needling, che però a differenza dell’agopuntura è basato sui principi della medicina occidentale ed è quindi scientificamente provato.

Un case report di Clewley et al dimostra che il Dry Needling può far parte del trattamento del paziente con Frozen Shoulder dove si siano identificati i trigger-points come concausa, con l’obiettivo di migliorare dolore e funzione. Pur essendo necessarie nuove e significative prove di efficacia, sulla base delle evidenze riscontrate in altre sindromi dolorose tale tecnica potrebbe portare importanti benefici per la cura della Capsulite Adesiva.


– Distensione articolare o idrodilatazione: in questa procedura, eseguita sotto anestesia locale, viene iniettata una soluzione salina (con o senza corticosteroidi) all’interno dell’articolazione; l’effetto è quello di diminuirne la pressione tramite la rottura delle aderenze capsulari e l’espansione dello spazio articolare. Nella review Cochrane di Buchbinder et al si conclude che l’idrodilatazione con soluzione salina e corticosteroidi aveva effetti migliori nell’ aumento di funzionalità e ROM rispetto al placebo nel breve termine. L’associazione dell’idrodilatazione alla fisioterapia ha maggiori effetti rispetto la sola fisioterapia fino a 12 settimane di follow-up sia nel dolore auto-riferito che nell’aumento dell’articolarità.


– Blocco del nervo sovrascapolare: l’accesso percutaneo al nervo, responsabile dell’ innervazione sensoriale di circa il 70% della spalla, è diretto; si possono utilizzare sia reperi di superficie che l’aiuto di una guida ecografica. Questa tecnica viene usata per ridurre il dolore acuto e/o cronico, dimostrando benefici sia a breve termine (in confronto all’agopuntura) che nel lungo periodo. La sua indicazione è infrequente, riservata principalmente a pazienti con dolore intrattabile. Se associato alla distensione capsulare, si può anche avere un miglior recupero del movimento

Trattamento fisioterapico

Attualmente, non vi sono studi di forte evidenza da cui trarre conclusioni definitive in merito all’efficacia specifica delle diverse tipologie di trattamento fisioterapico a disposizione per la cura della Frozen Shoulder.
Questo è causato da due motivi principali: da un lato, la grande complessità di tale condizione; dall’altro, una grande eterogeneità degli studi presenti in letteratura.

Come già accennato precedentemente, la complessità di una patologia come la Frozen Shoulder ha portato all’esistenza di diverse interpretazioni riguardo classificazione, eziopatogenesi, decorso clinico e processo diagnostico-valutativo. Le classificazioni, le suddivisioni in fasi, i criteri di inclusione/esclusione a cui gli studi fanno riferimento variano da autore a autore e spesso non sono specificati all’interno degli studi.

Tutto ciò ha prodotto una grande eterogeneità che rende difficile il confronto tra i diversi lavori per cercare di arrivare a delle conclusioni certe su quali siano i trattamenti migliori per le varie fasi della Frozen Shoulder.

Inoltre, la difficoltà di estrapolazione dei dati risiede, oltre che nella scarsa qualità degli studi (numero esiguo di pazienti, mancanza di un gruppo controllo, scarsa attendibilità dei risultati…), nella grande diversità degli interventi fisioterapici attuati nei vari lavori, che li rende difficilmente comparabili tra loro.

Un altro elemento da considerare è la diversità delle scale di valutazione utilizzate come indici di outcome nell’analisi dei risultati; anche questo è un ulteriore fattore che complica l’analisi ed il confronto degli interventi riabilitativi.
Risulta quindi complicato sintetizzare in modo esaustivo le evidenze presenti per tutti gli interventi fisioterapici a disposizione nella cura della Frozen Shoulder.

A tal proposito, nel capitolo successivo si analizzerà una proposta concreta di approccio riabilitativo al paziente con Frozen Shoulder, derivante da una review della letteratura scientifica che ha prodotto delle indicazioni non solo per il trattamento della Capsulite Adesiva, ma anche per la sua diagnosi e valutazione.

Qui di seguito vengono invece riassunte le tipologie di intervento fisioterapico maggiormente utilizzate negli articoli ricercati in letteratura:

– Educazione del paziente: è possibile utilizzare l’educazione del paziente per descrivere il decorso naturale della patologia, promuovere modificazioni nelle attività della vita quotidiana (incoraggiando il ROM funzionale indolore), promuovere l’autotrattamento.

– Terapie fisiche: in una revisione della Cochrane Collaboration (2014) vengono valutate le evidenze disponibili riguardo ai benefici dei diversi tipi di elettroterapia.

Gli autori concludono che per una sola di queste modalità, il laser a bassa intensità, c’è evidenza di beneficio a breve termine per dolore e funzione rispetto al placebo quando viene utilizzato in aggiunta all’esercizio.

Le prove di qualità fornite dagli altri studi di questa review sono troppo basse per definire se altre modalità di elettroterapia (ultrasuoni terapeutici, fonoforesi, diatermia continua a onde corte, ionoforesi, TENS, terapia pulsata con campo magnetico) siano sufficientemente efficaci per il trattamento della Frozen Shoulder. 

– Trattamento dei tessuti molli: la riduzione dell’escursione articolare e il dolore tipici della Frozen Shoulder sono altresì attribuibili ad una alterazione dei tessuti molli periarticolari, compromessi primitivamente o secondariamente alla patologia infiammatoria capsulare. Diventa necessario quindi il loro trattamento, attraverso vari strumenti terapeutici come ad esempio il massaggio, il massaggio trasverso profondo, il trattamento dei trigger points, la fibrolisi diacutanea.

– Mobilizzazione articolare: molti studi hanno analizzato le diverse procedure di mobilizzazione per ridurre il dolore, aumentare il ROM e la funzione nei pazienti con Capsulite Adesiva. Le tecniche di mobilizzazione possono essere a basso o ad alto grado di intensità: le prime sono più indicate nelle fasi iniziali della patologia, in modo da rispettare la sintomatologia dolorosa, le seconde nelle fasi successive, dove è prevalente la restrizione di movimento; le tecniche possono essere applicate al mid-range o all’end range (fine corsa).

I movimenti accessori più ricercati per il recupero articolare sono il glide postero-inferiore e/o anteriore in distrazione. Le mobilizzazioni inoltre, oltre ad essere dirette all’ articolazione gleno-omerale, possono essere applicate all’articolazione scapolo-toracica o alla colonna toracica. Infine, il tecniche su cui ci si basa possono fare riferimento al metodo Maitland, Kaltenborn, Mulligan.

– Esercizio terapeutico: è possibile istruire il paziente ad esercizi di movimento e stretching, la cui intensità deve essere determinata in base al livello di irritabilità dei tessuti. Gli esercizi di stretching possono essere diretti alla capsula articolare o al legamento coraco-omerale, mentre gli esercizi di movimento attivi puntano all’esecuzione del corretto movimento (ad esempio al ripristino del ritmo scapolo-omerale).

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